La saga di Żvanéṅ Ciavadåor – La scienza nuova
Che fare ora delle parole di Guståṅ? Dovrò io sacrificare a malintesa pudicizia l’eloquio che ci deliziò la prima giovinezza, portatore di mito e verità esilaranti? Per le mie contrade non ci sono più le stalle ad avvolgere viandanti nel loro quieto tepore. Non ci sono più le osterie ad accomunare di sera in strepitoso vociare la gente dispersa e ripiegata sul proprio infimo video. Sono spariti i passeri e non cinguettano più le rondini, né per i fossi gracidano più le ranocchie. Lasciatemi almeno resuscitare Guståṅ imperocché, per gli orecchi più ‘sensibili’, il suo dialetto venato di influssi della Bassa valga censura!
Allorché la ragazza si fosse convinta, o si fosse data per entusiasmo, non faceva differenza, qui cominciava la scienza nuova di Guståṅ: come amministrare e dosare opportunamente un suo strategico cinismo, perché non conveniva fare ‘questa cosa’ per puro istinto. Da praticante di lotta greco-romana, nelle palestre della profonda provincia, egli aveva imparato dai preparatori per esempio a fèr i masâg’, la tecnica dei massaggi che consigliava caldamente e quasi anticipatamente imponeva, par môd, in modo, da tenere in tiro la femmina, tenerla sospesa e indurla ad avairaṅ vójja, preoccupazione principe per cui non si davano limiti di tempo. Illustrava la sua scienza, Guståṅ, mentre con la mano nella striglia passava e ripassava lustrando la groppa delle mucche che con loro pellaccia evidentemente gradivano le rudi carezze.
Passava e ripassava per aiutare a governare le bestie anche la Maria, con la forca carica di fieno e per cambiare la paglia, la quale ascoltando i discorsi degli uomini commentava stizzosamente:
«E i sentimenti?».
Proseguiva intanto l’insegnamento esponendo il preludio d’i simitóṅ: lisadéṅni, langua in båcca, man alżîra. Brîṡa cuntèr al tänp. Non preoccuparti del tempo.
Cminzéppi con pluché ‘d gnòca cum la vén, come viene viene, pr’andèr un po’ in ṡghiringâja… per stimolare i cervelli… po‘ ssantanôv, lì såtta e ló dsåura… pr’arivèr al bói… all’ebollizione… sî, òt minûd… sei, otto minuti, come ti pare. Viene il momento che t a i a mét dänter, só e żå in pusuzian dal frè… avanti sänza fûria… dîṡ, dågg’ minûd… fârmet arîṡg che ‘l’ù là’ al vôl scapèr.
E qui attenzione e cautela, Guståṅ aveva una tempistica oltremodo scandita. A ste pónt qué, lì l’é côta par tintèr la prémma vôlta ed vgnîr a cô.
Portata la donna alla prémma ṡmâgna, bisognava insomma tirèral fôra, cambiare registro, e qui il comandamento onde Nostro Signore, che Dìo t bandéssa, ci aveva dato la lingua brîsa såul par bacajèr, non solo per chiacchierare, si dispiegava in fantasmagoria coniugata a puntuali conoscenze anatomiche, percorsi obbligati e strade da esplorare dopo attento scandaglio di quei luoghi che l’universo lì concentrato da chissà chi e da chissà dove doveva inesorabile manifestarsi.
Sóbbit una secanda pluchè… mirè… såul par lì! Mirata, solo per lei.
Conzêntrat lé, conzêntrat lé… an spustèrat brîsa da d lé. Såul da d lé ariva la liberaziån… C’al dòn i cradden ed ṡguazèr såul col ‘só e żâ’, mo quall l’è gnìnta! L’è såul la preparaziån! Mai stufêrat… se non arriva in tempi brevi, non scoraggiarti… i suoi tempi sono più lunghi dei tuoi… mez’åura… un’åura… a metè strè on al pôl stiupèr… ti potrebbe prendere lo scoramento… ma tu resisti! Tén a durro se t vû la premiaziåin, tén a durro in fén al rói dal gòsst! Fino all’urlo liberatorio.
Fosse stato in un palco di piazza, Guståṅ avrebbe sollevato la folla. E come in più alti consessi accademici, alla trattazione generale del relatore si alternano di rincalzo gli specialisti, un pomeriggio si aggiunse di passaggio Sandràn Fenômen che come da un pulpito di navata centrale così predicò:
«Al tótt al sta in tal superèr la prémma ṡgrugné». «Il tutto sta nel superare la prima boccata».
«Sóbbit tan capéss brîṡa sti capitè int al bigånz d la sarâca». «Subito non capisci se hai messo il naso nel bigoncio delle aringhe».
«Mo dåpp, a insésstar in gióssta misura (parché bisàggna insésstar!) la guènta parféṅn sciàvvda!». Ma dopo, a insistere come si deve (perché bisogna insistere!) diventa persino insipida!».
Tony e Mélli annuirono con sufficienza, come già intesi. Gustâṅ invece non smontava mai dalla sua seriosità. Men che meno quando la Maria passando e ripassando per governare interrompeva con stizza:
«E i sentimenti?».
Żvanéṅ invece ascoltava e imparava.
In quel periodo, accedeva spesso alla stalla il veterinario Bernardoni che portandosi dietro un borsone con divaricatore e siringa veniva a praticare la nuovissima tecnica della fecondazione artificiale, la quale aveva annullato l’agreste industria dei tori da monta. Egli era un uomo versato in molteplici discipline, talché oggi lo definirei senz’altro un umanista. Commentando le teorie di Gustâṅ mentre era intento all’operazione sulla Griṡa, la quale da due giorni era inquieta e tirava di catena, egli giudicò gravemente:
«Questo è un macchinismo che offende la spontaneità».
Ma siccome più grave era la pratica di cui egli stesso era portatore, come investito da improvvisa vergogna quasi di malavoglia infilò lo strumento sotto la coda della mucca grigia che, non gradendo, mestamente muggì.
Quivi giunto nella trattazione e dopo opportuna pausa, Gustâṅ avvertiva che ‘dopo’ lei diventa puêttica. Raccomandava allora di tornare alla tandràzza, con dolcezze e flebili smancerie, narrazioni da affidare all’orecchio della fanciulla. Bisbièr a gli uràcc in pònta ed furzeṅna, suggerire dolcezze all’orecchio. Zénc o sî minûd, cómm t vû té, a piacimento.
Pó dàpp secanda ripraiṡa cån sô e żå par eṡèmpi a pîgra… òt o dîs minûd… òcio che ‘lû là’ an t’ scâpia…
A questo punto toccava a lei sdebitarsi, cån una bèla magné ed bâl e d’ucaréṅna… dîṡ minûd… quendi secaṅda ripraiṡa ed ssantanôv, ló såtta e lì dsåura… dîs dågg’ minud.
Ora Gustâṅ acuiva la tensione alzando il dito, perché in questa ripresa poteva arrivare il secondo gósst per lei, ma non sarebbe stato facile per via della posizione scomoda di lui, che nella visione di Gustâṅ era già il suo allievo Żvanéṅ, il quale non potendo destreggiarsi in una ṡbiasughè mirata ottimale e inoltre a rischio che al pistuléṅn scappasse prima del gran finale, doveva portarsi subito in méż al còs ed lì e żâ, la pónta d la langua lé… ne poteva passare di tempo… i zénc minûd potevano diventare i trentacinque, i quaranta… a i vôl al sô tèmp mo l’é nezesèria la fidózzia, credi a me, credi a me e Żvanéṅ non avrebbe mollato, il secondo rói dal gósst sarebbe arrivato, perché Żvanéṅ aveva studiato da lui Gustâṅ, che aveva letto i lîber, quelli veri!
Era il secondo momento puêttic par lì. A m’ arcmånd! A m’ arcmånd! Non negarglielo mai. Poi qui, con tono pontificale, si affidava a quella che avrei potuto definire la libera invenzione di ciascuno, ma di cui la classificazione era immensa: al finèl con liberaziån par ló. Di gran finali se ne inventava uno al giorno, dipendevano anche dalla fantasia e dall’audacia di lei: smanazè ‘d bàl… ingójj… in fâza. Sempre però tenendo fiché in tal zócc, cioè avendo ben chiaro in testa, la ferrea disciplina dei principi fondamentali.
Ultimo momento poetico per lei.
Żvanéṅn arcôrdet, s at ciàpa al post coitum tristem, quello che dicono sempre i preti, tè resésst! Resisti! Brîṡa dîr ed nå, non dire di no al post coitum puêttic.
Ètra arcmandaziån: brîṡa ṡgarnazèr, brîṡa dscàrrar fôrt. Vanno bene al parulâzi, se trójja, se brótt ninéṅn, se putèna, mo sämper a våuṡ bâsa, come s t fóss in cîṡa a ‘scultèr la massa. Come se tu fossi in chiesa ad assistere alla messa.
Ed ecco che il beffardo nostro maestro, sovente financo bestemmiatore di Dio, in ciò rivelava di assurgere al religioso raccoglimento della poesia.
Per tutto gennaio e febbraio i giocatori continuarono a mescolare le carte, le mucche a regalare tepore, latte e letami, le frotte di topolini da granaio a bisticciarsi gli avanzi della biada, le pantegane a saltare furtive al calar della notte e Gustâṅ a profondere sapienza e fantasiose varianti. Invece la Maria, che veniva a mungere verso sera strizzando veloce d’esperienza le mammelle con l’una mano e con l’altra, facendo fischiare getti copiosi nel secchio di zinco, che persino il suono era caldo e odoroso, mentre la Mora piano piano muggiva di gratitudine, con stizza fulminava Gustâṅ:
«E i sentimenti?».
Finché Toschi, l’ultimo birocciaio della cava di ghiaia di Gigetto Vacchi da Castenaso non passò una mattina annunciando dalla strada che «a i é môrt Stalin», è morto Stalin, che glielo aveva detto uno che aveva ascoltato la radio. Lo stesso giorno che dalla frattura della vetrata in alto, lasciata all’uopo incustodita, con disteso cinguettare le rondini non cominciarono ad infilarsi a volo per riprendere possesso dei loro nidi di fango murato tra le travi e le volte dei soffitti. Era l’arrivo della primavera.
E primavere e inverni si susseguirono, Giovanni si fece un giovinotto atletico, simpatico e parolaio e le ragazze cominciarono a corrergli dietro. A questo proposito, Giovannino non si accontentava dell’ascendente naturale che sua madre gli aveva regalato e non rinunciava a spendere fatiche verbali per irretire una ragazza nel suo gioco di seduzione, tutto un apparato di retorica cui lui attribuiva i suoi primi successi. C’era chi commentava: «Quanto fiato inutile che sprechi, te che potresti farla facile». Ma avendo io da bimbetto girondolato per la stalla cercando di imparare il gioco delle carte, e ascoltato senza capire, sapevo che in fondo, fedele alla dottrina di Gustâṅ, egli, Zvanéṅ, ne eternava tutte le fasi e tutti i rimandi, così come un architetto avrebbe imparato a elevare una cattedrale fino alla cuspide della cupola.
Prossima puntata: Il vendicatore.
Bombo
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