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La saga di Żvanéṅ Ciavadåor – I cinque pilastri della saggezza di Guståṅ

La saga di Żvanéṅ Ciavadåor - I cinque pilastri della saggezza di Guståṅ

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La professione di Guståṅ era quella nobile e negletta del solfanaio, in virtù della quale egli aveva accesso a tutte le case, poteva fare la conoscenza di tutte le padrone di casa, poteva entrare nelle simpatie di tutte le figlie di tutte le padrone di casa. Non ho mai saputo l’origine del suo nomignolo, giacché egli non si chiamava precisamente Gustavo. Piuttosto, fin da bambino avevo ascoltato di una misteriosissima propensione di questo personaggio, che oggi definirei ossessione, e che mi fu chiara più tardi. Questa consisteva nel perseguire giorno su giorno, nell’escogitare permanentemente, nel favorire implacabile, quell’aspettativa cui le donne anelavano e che lui e i suoi amici chiamavano fèr vgnîr a gôsst: anche per questo lo battezzarono Guståṅ.
Ad un certo punto della vita, egli sentì su di sé un tale carico di conoscenza che come un antico filosofo si diede a profondere sentenze, indicare itinerari, giudicare comportamenti. In giro per le osterie o in ogni occasionale comunella o assembramento, suoi scolari non sempre entusiasti erano maschi o femmine, grandi e meno grandi. E come accade ad ogni innovatore nell’esercizio del suo magistero, egli sentì spesso serpeggiare l’ostilità se non montare la paura. Andò così anche nella stalla dei miei fratelli maggiori. A beneficio di Giovannino ma anche di tutti e di ciascuno, prima di ogni altra esplicazione Guståṅ espose i principi fondamentali che stavano alla base del suo sistema.
La dottrina o pantomima del ‘saper fare’ aveva inizio con l’esposizione del primo principio che era la «rånda dal faicàtt», ovverossia la circolare ricognizione del falco, il ronzare attorno alla ragazza, non perderla di vista e farsi trovare dovunque ella fosse, lanciando segnali provocatori e fuorvianti. E mai smarrendo il filo riguardo i modi dissimulati che supportavano tutta l’operazione, i quali costituivano «l’astózzia d la våulp», l’astuzia della volpe. Ciò supponeva il terzo principio ovvero «l’insidia serpäntina», il conseguimento dello scopo finale, sapendo scegliere al mumänt bån, il momento giusto per il «sèlt a gât», il salto del gatto: egli, girovago della campagna e delle borgate, per misteriosi suffragi presagiva l’universale mistica dell’attimo fuggente.  A questo punto non c’erano più regole razionali se non il «zå a madåṅ». Si capisce che il madåṅ è nient’altro che la zolla materiale che con forza di gravità precipita senza freni. Ma per Guståṅ questo era solo l’ultimo colpo di scalpello dello scultore, il godimento di una statua lungamente pensata e modellata.

Prossima puntata: La scienza nuova.

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