Diceva il grande storico Georges Duby che la Storia non esiste. Infatti tutto ciò che accade, appena un attimo dopo l’accadimento affonda nel passato, e tu non lo vedi più. Ecco allora che lo storico procede ad un recupero che è in parte illusorio. Va alla ricerca dei documenti e accerta delle testimonianze. Filtra tutto questo attraverso i suoi personali convincimenti maturati nell’esperienza e nello studio, e quindi allestisce un racconto, una narrazione, come si dice. Secondo qualcuno «accerta e stabilisce i fatti», ma è una patacca. I fatti, nella loro interezza, non esistono, esistono solo le interpretazioni dei fatti.
Ancora decenni fa, quando all’approssimarsi del Mondiale i giornali compilavano la classifica dei migliori calciatori in assoluto fino a quel momento, al secondo posto compariva sempre Pelé, e al primo immancabilmente Friedenreich. Ma, fino a tempi recenti, pare che nessuno sapesse chi fosse stato questo Friedenreich. Inesplorati dai più i trattati specialistici sul calcio, imperante l’attualità sulla Storia, Friedenreich era la figurazione di un mistero. Quando un buontempone chiese a Gianni Brera il parere su un’ipotetica formazione transgenerazionale, ovvero il miglior undici dalla Prima guerra mondiale in avanti, formazione che comprendeva Friedenreich come centravanti, più che far caso al bizzarro anacronismo della proposta il grande Brera sottolineò di non sapere chi fosse Friedenreich, non essendoci al riguardo né filmati, né cronache scritte, né tabellini di segnature, ed essendo irrintracciabili i pochi viventi che lo avevano visto giocare.
Poi, in decenni abbastanza recenti, spulciando i vari Futebol Brasil memória o i Revenção de Sau Paulo, editi dall’università di San Paolo, e insomma la montagna di resoconti esperiti, testimonianze e leggende, tutte le memorie sono state messe in fila e, nell’essenziale, consegnate a Wikipedia, l’enciclopedia popolare dove ognuno può farsi qualche idea di tutto quanto. Ne viene fuori un ragazzo nato nel XIX secolo (1892), dall’inconsueto cognome per un brasileiro. È infatti figlio di un immigrato tedesco e ha una madre afro-brasiliana, ecco perché ha la pelle scura. Il lancinante desiderio di tutti i ragazzi di strada di giocare a futebol lo porta ad essere il più famoso del suo Paese nel Primo dopoguerra, anche se il razzismo del presidente Epitácio Pessoa ne ostacola la convocazione nella Seleçao. Tale fatto sembra che lo abbia tormentato a più riprese. Uno stato di cose che, oltre ad offendere le persone, è un astutissimo sistema di autolesionismo… Infatti pare sia stato per questo che non giocò i Mondiali del 1930, come forse avrebbe potuto.
Si narra che abbia marcato più gol di Pelé e che non abbia mai sbagliato un calcio di rigore. Resta la foto di un uomo elegantissimo, dalla bella faccia tedesca e dalla pelle scura, e che a quanto si dice e si intuisce aveva imparato a vivere in modo raffinato.
Come per il grande Friedenreich, anche le imprese di Gino Zocca sono cancellate dal corso delle cose. Zocca altri non era che il nonno materno del nostro collaboratore, il valoroso Roberto Porrelli. Nato nel padovano (1905), si vede che il nome Gino era comune da quelle parti. Come per Friedenreich la vocazione era di fare gol, così per Zocca era di impedirli. Militava nel Petrarca Padova, club che arrivò addirittura in Prima Divisione ma che in seguito scomparve, ricomparendo come società di rugby. Anche per lui il desiderio di entrare in un quel rettangolo di gioco era così cocente che per giocare si vendette i libri di scuola, dopo essersi diplomato – all’epoca – ragioniere, ed essersi fatto confezionare da un calzolaio gli scarpini da calcio, su misura, di colore azzurro.
Giocava terzino destro, una sorta di ultimo uomo a marcare l’attaccante più avanzato. Come un guerriero, indossava una ginocchiera sulla gamba sinistra, per entrare sempre e comunque in scivolata. E come un guerriero aveva una cicatrice sulla testa, che da anziano gli affiorava sulla pelata, dovuta alla cucitura del pallone di cuoio «che poi – raccontava – quando era bagnato faceva più male». Veniva a morosa a Bologna da Padova in bicicletta, anche se più tardi, coi proventi del calcio, poté comprarsi una moto e, per sottolineare l’approssimazione dei tempi, a volte si faceva sostituire in campo dal fratello che era perfettamente uguale e si chiamava Arrigo.
La nonna di Porrelli era molto gelosa, perché diceva che a metà strada, forse a Ferrara, il Gino avesse un’altra morosa, motivo per cui litigavano spesso. Però anche la sua carriera ebbe un momento di culmine esaltante, e questo poté verificarsi quando giocò contro il Milan, partita in cui fu destinato a fermare il mitico Renzo De Vecchi, detto ‘Figlio di Dio’, che giocava con una fascia bianca sulla fronte. Quando lasciò il calcio, Gino fu assunto alla Ducati, e ogni tanto faceva una partita aziendale. Ma non era più quello di prima. Raccontava la nonna che una volta si sbagliò e si mise due scarpe dello stesso piede, onde cadeva sempre e gli ridevano dietro. Quello che lasciò ai posteri fu di aver insegnato al nostro Porrelli a calciare di esterno piede, patrimonio che lo stesso capitalizzò andando ad allenare… a pallavolo.
Bombo
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