L’oro del Reno (Terzo capitolo: La casa perduta del guardiano del Reno – La casa sul canale)
«(Chi ha fatto questa Italia?)
“…la barbarie dei geometri
e le malefatte degli
amministratori comunali…”».
[Da un articolo di Sandro Viola – Anni Novanta]
Noi percorriamo via Riva di Reno tutti i giorni. Oggi è, senza ombra di dubbio, la via più brutta del centro storico, fatta eccezione per l’ultimo tratto, oltre Palazzo Gnudi (dopo il numero 77, il Millenium tanto per intenderci). Per forza: oltre quel limite la strada è intatta, più o meno come nei quattro secoli scorsi. Non che la prima parte, a cominciare da via della Grada, abbia mai compreso monumentalità od opere d’arte di qualche livello.
Una volta, ad una conferenza di Eugenio Riccomini, indetta proprio per parlare del settore della città in cui si svolge questa favola nera, mi accorsi che l’ottimo professore non ne sapeva una madonna, non aveva argomenti all’altezza delle sue competenze e si arrabattava con grande abilità e simpatia per intrattenere il pubblico con divagazioni divertenti. Il fatto è che in via Riva di Reno di madonne in senso vero e proprio non ce n’erano mai state, cioè niente che avesse potuto interessare uno specialista di storia dell’arte. Fatta eccezione, naturalmente, per la chiesa dei Santi Filippo e Giacomo, Santa Maria della Visitazione al ponte delle Lame e Santa Maria della Carità al ponte di San Felice.
Eppure, fino agli anni Trenta del secolo scorso, fin tanto che era rimasta intatta, come spontaneamente e tumultuosamente l’avevano messa su nei secoli attorno alla ‘zona industriale’ di allora, cioè le prese d’acqua del canale di Reno, era stata la via più fotografata di Bologna e le cartoline illustrate se n’erano andate in giro per tutto il mondo. Come mai questi nuovi artisti con trespolo e grandangolo avevano capito la natura spettacolare di un patrimonio che era di tutta la gente, minuta o importante che fosse? Forse perché la bellezza prodotta dalla sapienza costruttiva popolare cominciava a proporsi a chi la sapeva vedere?
Sennonché vennero avanti, prepotenti, i concetti di risanamento, le smanie della viabilità e, soprattutto, i bajocchi.
Bene. È successo quel che è successo. Citando il buon Lévi-Strauss da altro contesto: «Dieci secoli di storia sono andati perduti. Non c’è più nulla da fare». Questo nel giro di pochi anni, in cui c’era stato bisogno di ricostruire. Che disdetta! Pazienza. In decenni in cui il gusto non era ancora maturo. Che disdetta! Pazienza. Adesso sì che sapremmo come proteggere e conservare! E sai quanti turisti, porca miseria?!
Bene: a tutta la demolizione seguita e che ha ridotto la strada a non saper dire al passante dove si trovi, se a Beirut, Bogotà o Bologna, tra i pochi reperti, al numero 23, era scampata una casetta bassa e civettuola, con la porta ad arco, il terrazzino liberty in ferro battuto e le persiane in legno, quasi ultima arrivata di quella plurisecolare germinazione lungo il canale che aveva accatastato labirinti e plebee cattedrali dal sottosuolo al cielo. Poteva passare anche inosservata: era un soldatino superstite di un esercito che non esisteva più, una chiesetta laica davanti a cui chiunque fosse stato messo sull’avviso avrebbe potuto formulare un pensiero non ignobile; infatti stava su tutti i libri di storia della città. La chiamavano ‘la casa del guardiano del Reno’.
Si chiamava così perché fu abitata da un personaggio che aveva il compito di arpionare e tirare a riva i corpi delle persone che sovente ci si erano annegate a monte e che lì s’impigliavano nel ponte dirimpetto. Erano tempi diversi anche per queste cose e il Caronte con il rampino meriterebbe appieno di figurare in quelle immagini fotografiche rimaste, segno estraniante di catastrofe epocale.
Ebbene, un bel giorno, al nostro piccolo edificio vennero poste le transenne e fu coperto dai teloni. In poche ore non esistette più. Anche le fondamenta, in un suolo sacrale di tempo e fatica, furono scavate per fare posto a garage e quant’altro. Che cos’è avvenuto? Dove siamo? Quando siamo? Siamo all’11 ottobre 2006. A Bologna, non ad Agrigento. A Bologna, non a Kinshasa. Sindaco Sergio Gaetano Cofferati. Soprintendente ai beni architettonici Sabina Ferrari, quella feroce versus gazebo e tende solari. Terza Commissione edilizia presieduta dal geometra Marco Piccaglia. Legittimazione: il Piano Regolatore del 1985 (non ai ‘secoli bui’) che ha ritenuto l’edificio «non di particolare valore artistico» (da abbattere e ricostruire). Sentenza eseguita nel 2007, in spregio a democrazia e trasparenza. Nessuno che, minimamente investito di poteri, dopo tanti discorsi a proposito e a sproposito di questi argomenti, in tutte le sedi, abbia posto una minima obiezione in extremis.
Nessuno che abbia impedito «que s’accomplisse l’assassinat». Chi non salva uccide.
Un’obiezione, per la verità, fu posta: nella CQAP del 05/09/06. Riguardava, però, la non corretta rappresentazione grafica delle falde prospettanti la via Riva di Reno, cioè la facciata dell’edificio di nuova costruzione. Forse non era abbastanza brutta e il richiedente era il progettista Latini Lorenzo Silvio, perché, come scrive giustamente in una lettera al sindaco Patrizio Gagliardi (suppongo un bravissimo studente di architettura che non ho ancora avuto l’occasione di incontrare) che, per primo, provò ad occuparsi della questione, «è stato autorizzato un doppio scempio: demolizione di un edificio storico e progetto di costruzione di un nuovo edificio che fa a pugni con il contesto urbanistico». Sembra di capire che la spuntò, infatti, un mese dopo, il richiedente progettista B.G.L., proponendo «nuova e diversa soluzione di facciata per edificio 3A». Complimenti Architetto B.G.L.! Adesso la facciata è bell’e fatta e ce la godremo per i secoli a venire, accecante e precisa come uno schiaffo sul muso. A meno di un nuovo bombardamento su Bologna, come andava evocando ancora il Riccomini, in certi paradossi sulla ricostruzione del dopoguerra.
Architetto B.G.L., noi non le useremo l’offesa di sospettare che Lei si creda Le Corbusier. Noi abbiamo rispetto per la Sua intelligenza e ci rassegniamo a considerare che, probabilmente, Lei ci ha fatto questo perché tiene famiglia, come tanti di noi.
Sic as flatus vocis, dicembre 2006
Continua…
Bombo
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Foto copertina: zerocinquantuno.it