L'oro del Reno (Terzo capitolo: La casa perduta del guardiano del Reno - Premessa)

L’oro del Reno (Terzo capitolo: La casa perduta del guardiano del Reno – Premessa)

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«Penso alla sventura di Andromaca…
Quando la forma di una città
cambia più veloce
del cuore di un uomo».

[Charles Baudelaire – Il cigno]

Scritto nel 2007 e lasciato inedito

Una volta, molto tempo fa, si abbattevano le vecchie costruzioni per farne di più belle. Secondo il proprio punto di vista, beninteso. Un punto di vista stilistico, diverso da quello precedente. Il risultato, però, era sempre buono. Se si abbatteva bellezza, si edificava nuova bellezza. Si abbatteva anche per sfregio, per punire popoli nemici o privati nemici: a Bologna, nel periodo comunale, ciò è accaduto tante volte. Al nemico politico sconfitto si faceva abbattere la casa. Oggi, giù la casa del Geremei. Domani, giù la casa del Lambertazzi. Per non parlare, sempre restando nella nostra Bologna, del furore popolare che portò alla distruzione del castrum romano, con tutta la documentazione che c’era dentro, dopo la morte della contessa Matilde e il passaggio del Barbarossa. E più tardi del palazzo dei Bentivoglio e più volte della fortezza della Montagnola. Intendevo escludere questi casi dalle mie considerazioni, sennonché, proprio mentre mi accingevo a scrivere, il senso torvo della punizione, individuale e collettiva inflitta ad innocenti, mi ha preso fortemente, fino a farmi pensare alla risoluzione finale di questo articoletto e della vicenda.
Consideravo dunque come spesso, in passati periodi, si sia preteso di costruire abbattendo il passato facendo meglio che nel passato e come, altrettanto spesso, questo ‘miglioramento’ si realizzasse sul serio, se teniamo conto che allora (diciamo dall’antichità fino all’ultima guerra) tutti sapevano costruire bene. Sapevano costruire gli architetti e i grandi capomastri ma, cosa che qui più ci interessa, sapevano costruire cose bellissime anche i loro sconosciuti sottoposti e popolani. Sempre, ogni qual volta mettessero mano a cazzola e caldarello: per fare la casa o per fare il mulino; nell’alto e nel basso; nel piano e nel dislivello; di sopra e di sotto. Senza nemmeno pensarci, ma ‘sapendo’.
Ricordiamo infine che la motivazione estetica, anche nei casi di distruzione che non erano dovuti a saccheggio o punizione, era supportata da motivi culturali o, piuttosto, ideologici. Chi costruiva il nuovo sulle vecchie rovine, insomma, faceva riferimento ad una cultura nuova e vincente. Per tagliar corto e fare esempi che conoscono tutti, diciamo delle chiese cristiane costruite sulle fondamenta dei templi pagani o di Santa Sofia intonacata dai turchi per sostituire gli arabeschi alla figurazione. Il risultato estetico è comunque strepitoso perché, in tutti casi, chi metteva mano all’opera sapeva quello che faceva. Il risultato culturale, naturalmente, aveva dei risvolti non altrettanto buoni: intere civiltà se ne sono andate a ramengo in questo modo con il seguito delle sofferenze individuali e collettive che derivano dal mutamento repentino del paesaggio abitativo, con contraccolpi sull’identità collettiva, inconsciamente sfocianti in comportamenti asociali ed aggressivi in misura più devastante di quanto non si creda a prima vista. Perdere il proprio paesaggio è come per il bambino perdere la madre e il padre. È il tema della morte di Dio. Io non sono credente, lo sanno tutti. Però conosco bene la potenza normativa e consolatoria di una fede. Persa la fede entri nel panico. Sei esposto a tutti gli eventi. Persi i punti di riferimento, anche abitativi, si perde l’identità. Si diventa più tristi e più incattiviti, verso se stessi e verso gli altri. In una parola: si diventa anche più ‘stronzi’. È successo, infatti, anche a noi come popolo, e ce ne rendiamo conto tutti i giorni.
Accanto alla motivazione estetica e a quella ideologica, moventi culturali di distruzione a fine di ricostruzione, non possiamo dimenticare la motivazione economica, quella specificamente ‘speculativa’, che sempre culturale è. E che diventa preponderante nel tempo della nostra Italia moderna.
Speculatori, sia chiaro, ce ne sono stati in tutti i tempi: c’erano a Babilonia, come riportano le tavolette cuneiformi, e sappiamo come a Roma affittasse i suoi casamenti quel furbo di Cicerone.
Anche il Comune di Bologna fece in ogni tempo delle speculazioni, pardon, delle operazioni immobiliari. Per esempio, quando smantellò la prima cerchia di selenite, dopo il Barbarossa e la contessa Matilde, per venderla ai privati. Promosse questa operazione, però, secondo un piano edilizio quale oggi ce lo possiamo soltanto sognare, come del resto è agli atti nei documenti d’epoca. Così pure fece con la seconda cerchia dopo Fossalta nel 1275. Peccato che delle mura di selenite stiamo ancora rintracciando i blocchi qua e là e della seconda cerchia ci sono solo le tracce e gli avanzi. Io, per esempio, abito sopra un tratto di quello che era di fossato, però non si vede niente e si può soltanto dedurre. L’ultima operazione di quel tipo si fece con l’abbattimento della terza cerchia, quella dei viali, cominciata a fine Ottocento e proseguita fino agli anni Cinquanta del secolo scorso (per me, il mio secolo).
E qui comincia la tragedia.
La tragedia paesaggistica e ambientale, drammaticamente cocente perché in corso e irreversibile. Già, perché se in passato le cose sembravano verificarsi nell’incoscienza di una prospettiva storica, spontaneamente come certa innocente ferocia di popolazioni ‘altre’, non solo, ma se in passato a bellezza distrutta subentrava bellezza nuova, ad un certo punto, subentrando la pianificazione delinquenziale della speculazione edilizia spariva, contestualmente al patrimonio dei nostri avi, la possibilità di sostituire tutto questo con qualcosa di sensato. Non solo spariva quello che era stato il lento depositarsi della natura e dell’operato umano fino a quel momento, ma venivano a mano a mano annullate, perché oramai inutili ed antieconomiche, le capacità costruttive del singolo muratore, del singolo carpentiere e del singolo selciatore. Capacità direttamente e naturalmente fattrici di cose eccellenti: il palazzo del Pilastro e quello della selva di balconi, insieme alla palazzina del geometra nazionale, costruita solo per vendere, divennero in questo modo anche irrimediabilmente brutti.
Ma la bruttezza del nostro paesaggio abitativo, mi pare di averlo anticipato sopra e non sono certo il primo a dirlo, non sta fuori di noi: è dentro di noi e ci determina.
Bene, a chi dobbiamo la punizione divina che è stata inflitta a noi e ai nostri figli e nipoti, per essere nati sì nell’età del Plasmon e poi del telefonino, cose tanto buone in sé, ma per aver dovuto pagare tutto questo con la distruzione del nostro paesaggio, con la manomissione del nostro gusto e, perciò, anche delle nostre coscienze?

Continua…

Bombo

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Foto copertina: zerocinquantuno.it