L’oro del Reno (Secondo capitolo: Finis Rheni)
«Penso a chiunque abbia perso
quello che non si ritrova…
I miei ricordi sono un dolore
più pesante delle rocce».
[Charles Baudelaire – Il cigno]
Luglio 2002
Il Percorso del canale del Reno, dal varco della Grada fino alla fine di Capo di Lucca fu, da metà Ottocento alla Seconda guerra mondiale, l’itinerario cittadino più frequentato dai cultori della nuova arte della fotografia.
Eppure non costituiva la parte monumentale della città. Ne era stato piuttosto la fabbrica, quella che aveva prodotto ricchezza per ben sei secoli, gremita di mulini e opifici e munita di innumerevoli prese d’acqua (al ciavgh) per far muovere le pale delle ruote nelle cantine. E dentro e tutto attorno le abitazioni del popolo e dei lavoratori.
Declinato il grande complesso preindustriale, l’ambientazione era rimasta, a testimonianza vivente del fatto che ‘quelli di una volta’, almeno fino alla rivoluzione dei consumi, ci sapevano veramente fare. Qualsiasi cosa costruissero, su qualsiasi terreno piano o accidentato, fossero cattedrali o fossero palazzi patrizi ma anche case e casette del popolo, la facevano sempre bene. Per qualche ragione misteriosa, ci prendevano.
Cortili e cortiletti. Raddoppi fronte-retro. Superfetazioni. Cessi sospesi. Tetti a due, a tre acque, a spiovente. Porte ad arco. Porte quadre. Androni aperti. Ballatoi, portici, portichetti. Muretti, contrafforti, ringhiere. Pergolati, balconcini, mensole, terrazze. Bifore, piccionaie abbaini. Comignoli di tutte le fatte e di tutte le sfumature della caligine. Ciminiere, scivoli, ponticelli. Con apparente criterio, senza apparente criterio. Scale e scalette. In salita. In discesa. Dal basso e di sopra. E su in alto casoni accatastati. E giù gli scaloni sull’alveo del canale e un sacco di gente che andava da tutte le parti.
Tutto si armonizzava con tutto il resto, tutto era suggestivo.
La convinzione che non siamo semplicemente intrappolati in una nostra deformazione nostalgica da Finis Austriae è avvalorata dal fatto che gli ultimi testimoni qualificati dell’epoca, proprio i fotografi, scattarono e scattarono qui, coi loro trespoli, più che sulle vedute naturali o sui monumenti e ne fecero cartoline da spedire in tutto il mondo. Perché mai, se essi stessi non lo avessero ritenuto eccellente nel loro stesso tempo?
Ma non vale discutere: nel giro di un paio di decenni sparì tutto quanto.
Distorto senso della modernità. Pretesti igienici fuori tempo massimo, barbara ricostruzione postbellica, bassa speculazione, impotenza delle amministrazioni ma anche piani urbanistici nefasti, incultura ovunque, hanno prodotto qui come in altri quartieri centrali (ma qui in modo totale) effetti non meno devastanti di quelli che siamo soliti imputare a città ritenute meno civiche.
Certo, io mi sforzo di capirli quelli della generazione prima di me, i responsabili del disastro: avevano abitato caseggiati fatiscenti; ancora nelle case borghesi preesistevano cessi col birone.
La retorica del piccone risanatore dovette per lungo tempo apparire la scorciatoia risolutiva o forse, voglio pensare, la sola praticabile in quel momento. Così i nuovi palazzi sorti sulla distruzione del Lungo Reno dovettero apparire come il massimo che si potesse concepire e infatti furono occupati dalla nuova borghesia benestante, dai giovani professionisti, mentre gli antichi abitanti furono spinti nella seconda periferia.
La rivoluzione delle marmette in graniglia e delle piastrelle da bagno influenzò in via definitiva anche noi contadini della bassa, che ci mettemmo di buona lena a guastare quel poco che possedevamo di buono, come la razionale bellezza delle nostre case coloniche, magari pensate da un architetto come il Dotti.
Nessuna nostalgia per le realtà escludenti e miserabili di quel mondo, sia chiaro. Resta il dubbio se fosse stato possibile diventare meno poveri senza doverci sotterrare l’anima.
Oggi la direttrice del Reno è una lunga via crucis, costellata di stazioni dolorose: la Grada tombata e ridotta a plaga di parcheggio. Il dedalo delle vecchie costruzioni, annichilito e confinato in cartolina. Incombente l’architettura internazionale anni cinquanta. Oltre Marconi il palazzone nato dalla bomba che ha distrutto il Serraglio del Poggiale. Le Moline irriconoscibili. Sterilizzata la procellosa strettoia del Reno tra le case di Capo di Lucca. Perduta la visione fantastica dello strapiombo del Cavaticcio fruibile, bene o male, fino ai primi Settanta. Il porto se n’era già andato negli anni Trenta. Ma chi ha potuto concepire il grottesco finale, col Cavaticcio interrato, il fiume finto in superficie, e un muro di mattoni nuovo di trinca a nascondere il passaggio da cui partivano i barconi, come se ti mettessero davanti una manaccia per nascondere il volto di una bella donna?
Così sono andate le cose.
Ma sotto i solai di putrelle di ferro sono rimaste, intatte, le vasche delle lavandaie…
Come ogni esercente che si rispetti, avevo un nemico condominiale che però, una bella volta (imperscrutabilità dei disegni divini), mi aveva regalato una vecchia foto della Grada. Era della serie di quelle che si vedono in giro, appese alle pareti degli uffici oppure a quelle dei bar e tuttavia unica. Io e mia moglie Luciana, osservandola, avevamo accarezzato un dettaglio che ci aveva commosso. La figuretta di una lavandaia adolescente che leggeva un bigliettino, di certo la cosiddetta lista della lavandaia, ma si poteva immaginare che in un momento di riposo leggesse la lettera di qualche fidanzato… Così è nata questa Madonna, nel triplo senso di preghiera e di imprecazione e di omaggio alla statua di bronzo.
Adesso che i buoi sono scappati, so di benemerite associazioni costituite per salvare il salvabile o forse per elaborare il lutto. Quanto a me, io avevo frequentato per mesi, in una bottega di Capo di Lucca, un centenario folle che aveva fermato il tempo e tutti i santi giorni, ventiquattro ore su ventiquattro, bisticciava con le lavandaie così come cinquant’anni prima. Erano sguaiate rampogne, era oscena allegria, erano offese gioiose e impronunciabili, erano esilaranti burle, basse provocazioni e prediche solenni. Ma il filo non si comprendeva, la corrente del Reno se l’era portato via.
Continua…
Bombo
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Foto copertina: zerocinquantuno.it
Foto interne: Fabio Cocchi – zerocinquantuno.it