Celebrava Gioân Brera da San Zenone Po la nostra propensione a «delirare calcio». Ebbene, nell’immaginario degli italiani della mia età c’è un posto malmostoso per una Corea calcistica. Una Corea che è l’apparizione, l’emblema di tutte le nostre delusioni. Una Corea per ‘tutte le Coree’. Solo nel calcio? O nella nostra intera vita? Non saprei dire.
Eravamo all’asilo infantile, presso la parrocchia di Prunaro di Budrio. C’era tristezza nei grandi. C’era chi diceva che tutti i nostri palloni erano stati calciati in mare dal ponte di una nave verso un posto chiamato Brasile. Anche i piccoli come me diventarono tristi. Avevamo perso. Ricordo il nome di Gino Cappello, uno del Bologna…
Invece eravamo più grandicelli quando i ‘grandi’ lamentarono che gli arbitri ci avevano fatto perdere contro gli svizzeri. E i miei amici con loro. Era tutto un vociare nella scuola comunale, quella dove adesso c’è un museo che si è inventato Zarvlè, Cervellati, il grande patron della Comet.
Cominciavamo a sbirciare le ‘bambine’, quando pare che andassimo nella città di Belfast per qualificarci ai Mondiali di Svezia portando i cinque attaccanti più forti del mondo, quattro oriundi sudamericani più Pivatelli del Bologna. Proteste al cielo, strida e litigi al fumo delle nazionali senza filtro e delle prime Marlboro all’Osteria dei Canaletti dove anche noi ci intrufolavamo come gatti al profumo delle braciole di castrato. Niente da fare. In Svezia, poi, saltò fuori un oriundo brasiliano che ci avrebbe in seguito tormentati di gol al Comunale a noi del BFC. Si chiamava José Altafini.
La partita col Cile ce la ascoltammo invece sotto le stelle con radiolina a transistor, con un orecchio alla voce di Carosio e con un occhio alla gonna della ragazzina. Una catastrofe. Ci presero anche a pugni. Molti anni dopo, al Bombo, mentre offrivo una crêpe a un vecchio profugo cileno, un ex ballerino di tango che a suo tempo aveva visto la partita al Nazionale di Santiago, questi mi disse: «Sì, Lionel Sanchez era un ‘maleducato’, ma voi giocaste male, male…».
E venne finalmente la Corea delle Coree. L’epifania della ‘Corea’, figlia e madre di tutte le Coree. Edmondo Fabbri aveva impostato tutto sulla regia di Giacomo Bulgarelli. Ma Bulgarelli si infortunò nella prima partita, un incidente da cui non si riprese forse mai de tutto. E il baraccone crollò.
Il ’70 resta sospeso in un limbo. Un ricordo ambiguo e fastidioso, dopo Italia Germania 4-3.
Venne il mondiale del ’74 in Germania. Ancora Corea. Poi finalmente quella che a detta di molti è stata la più bella Italia di sempre, in Argentina. Ci sarebbe molto da dire. Troppo. Ma la delusione fu cocente perché, per una volta, eravamo davvero i migliori…
Un mio amico brasiliano mi rimproverò, una volta, di fissarmi sulle sconfitte e mai ricordare le vittorie. Sì, è vero, è un mio vizio esistenziale. Per questo sorvolo sul 1982. Ed ecco che ‘il francese di Novara’ Platini ci elimina, con dolce compassione, in Messico nel 1986…
Non parliamo dei mondiali ’90, delle ‘notti magiche’ e di quel gran figlio di buona donna di Maradona…
Se perdemmo i Mondiali americani del ’94 fu per il ‘fondamentalismo’ zonaro e bolso di Arrigo Sacchi, come più o meno affermava anche Vialli. Avremmo avuto la squadra più forte, ma tant’è…
Non ho mai rimosso la devastante Corea che furono gli Europei del 2000. Già vinti consumando agognate vendette sportive con Francia e Olanda su un ventennio precedente. Perché misero dentro Del Piero ancora sofferente dei postumi di un grave incidente? Furono gli sponsor?
Penso ancora che ‘Quella’ Corea non fu consolata dal 2006 né dal 2021. Fino a quella dell’altro ieri. Pace e così sia.
Bombo
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