Una generazione alla frutta (Eredità senza beneficio d’inventario) – Quarto capitolo: Il calcio ‘socialista’
Quarto capitolo: Il calcio ‘socialista’
Al ritorno verso le fabbriche e i cantieri, dopo la mangiata di pesce con litigio, i nostri amici discutono ancora di calcio. C’è stata una squadra agli ultimi Mondiali che era una spanna sopra tutte le altre. Il tempo avrebbe confermato. Si è detto che il suo stretto fraseggio a improvvise puntate avrebbe influenzato dopo molti anni il grande Barcellona di Pep Guardiola. C’era poi il centravanti Hidegkuti che giocava arretrato e faceva anche la regia, creando enormi spazi là davanti. Mi sono ricordato che nello spareggio scudetto del ’64 Bernardini fece fare la stessa cosa a Capra che invece era un terzino, con risultati analoghi.
Per molti miei amici il segreto di questa Ungheria risiedeva nell’essere la Nazionale di un Paese socialista. Infatti i cattivi tedeschi, bisognosi di rivalsa bellica, avrebbero utilizzato le loro conoscenze chimiche del tempo di guerra per dopare i propri giocatori durante l’intervallo della finale che stavano perdendo 2-0. Non per niente questi cominciarono a correre come cavalli ed è un fatto che i nazionali tedeschi della partita da quel giorno non sarebbero più stati veri giocatori di calcio.
Poi si verificò la rivolta ungherese del ’56. Fin nella nostra profonda campagna si trepidò per la sorte dei campioni ungheresi presi in mezzo ai carri armati sovietici. Alcuni combatterono, come il sedicenne Gábor. Anche noi combattemmo, grandi e piccoli l’un contro l’altro, per tendenza politica e per tifo, senza distinzione di età. Chi era di sentimento anticomunista alzava il dito e asseriva: «Lo avevamo detto». Chi era di sentimento comunista era sconcertato. L’Honvéd, la squadra di Puskás, era all’estero e ci rimase. Tutti sanno che Ferenc entrò poi a far parte della leggenda del Real Madrid.
Il tifo sotterraneo per il calcio dell’Est socialista durò ancora per molto tempo, complice anche la disgraziata serie dei nostri confronti con l’Unione Sovietica che perdurò per venticinque anni almeno.
Il primo confronto coi sovietici campioni d’Europa si ha il 13 ottobre del 1963 allo stadio Lenin, per le qualificazioni agli Europei del 1964. Infausta giornata. I sovietici sono spietati nei falli e coperti dall’arbitro polacco. Rivera sembra una mammoletta. Siamo sotto 1-0, quando Pascutti (sì, il nostro Pascutti) parte in contropiede e il terzino Dubinski, che ha già rotto la faccia a Sormani con una scarpata, lo butta giù da dietro. La definizione della televisione di allora non permette di capire bene se Pascutti, rialzandosi, colpisce con un pugno Dubinski o soltanto lo minaccia. Io almeno non l’ho capito. Ho solo negli occhi, ancora, lo scatto a rialzarsi di Ezio e il mulinare di un braccio. Pascutti stragiurò sempre di non avere colpito. Ma Dubinski si abbatte come una pera. Espulsione, epocale. Prendiamo un altro gol da Cislenko, uno che ci toccherà di sentire ancora. Resta il fatto che questa dolorosissima partita è la madre delle successive nostre batoste con l’URSS. Pascutti diventa il capro espiatorio e persino il PCI, addirittura dai banchi del Parlamento, chiede sanzioni contro il povero Ezio, colpevole di avere ‘picchiato’ un sovietico.
Il divario atletico è comunque evidente. Nelle discussioni tra studenti, a scuola, gli italianisti come me azzardano timidamente che sì, gli italiani sono inferiori perché forse un po’ viziati (io penso soprattutto a Rivera), mentre i sovietici sono sottoposti ad una durissima disciplina statale per poter emergere come sportivi ai privilegi della nomenklatura. Il mio compagno di banco, futuro grande dirigente pubblico, si sente in dovere di svillaneggiarmi ricordandomi che lo sport in Unione Sovietica «è tutto dilettantesco». Questo era il clima, e queste cripto-tifoserie da Guerra Fredda reciprocamente si mostreranno i denti ancora per molti anni.
Nel 1966 in Inghilterra, alle eliminatorie, perdiamo ancora dall’URSS prima che dalla Corea del Nord. È 1-0 ed è ancora Cislenko a punirci. Segna anche il nostro redivivo Pascutti su cross di Bulgarelli, ma il gol viene annullato, non si è mai capito perché. I simpatizzanti sovietici si sposteranno in quell’occasione sulla semifinale Germania Ovest-URSS.
Agli Europei del 1968, a Napoli, dopo centoventi minuti di gioco sullo 0-0 ci tiene in corsa la monetina. La sotterranea simpatia sovietista si sposta per un attimo sulla Jugoslavia, di cui si commenta la prestazione atletica nella sua vittoria contro l’Inghilterra campione del mondo. Il fratello del mio amico dei libri, che ne frattempo è diventato sindacalista dei lavoratori autonomi, osserverà che alla esuberènza degli inglesi gli slavi hanno opposto una grèn prestènza. E ad un’obiezione ribatterà che alla prestènza degli inglesi gli slavi hanno opposto una grèn esuberènza. Non si scappa, è una logica stringente. Poi vinciamo in doppia partita con la Jugoslavia, mentre gli ultimi battibecchi sportivi da Guerra Fredda sfumeranno lungo gli anni Settanta.
Noi di sinistra eravamo convinti che i successi atletici dell’Est europeo fossero tutti merito delle strutture statali messe a disposizione della comunità. I fatti e la scoperta di pesanti pratiche illecite avrebbero dimostrato che la realtà era più complicata e che avevano intuito meglio ‘gli altri’, quelli che leggevano giornali invero un poco più ‘beceri’ di quelli che eravamo soliti leggere noi. Per me fu una lezione.
Vent’anni dopo, agli Europei ’88, il clima politico non ha più niente a che spartire con quello precedente. Oramai siamo alla contemporaneità, anche se ai millennials sembrerà strano. Basti dire che l’URSS è quella di Lobanovski, il maestro di Sacchi, e che in una drammatica semifinale a Stoccarda, sotto il diluvio, veniamo stroncati dai vari Litovchenko, Protasov, Zavarov, Mikhailichenko. Io ricordo l’espressione terrorizzata di Bergomi colta dalle telecamere e l’impotenza del giovane Mancini. Singolare, pensata oggi, è che quella era una Nazionale fatta quasi tutta di ucraini. Vero è che i nazionali sovietici cesseranno con quella partita di essere giocatori determinanti, come avessero esaurito tutte le batterie.
Continua…
Bombo
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